In memoria dell'otto settembre ’43, un omaggio a tutti gli italiani di allora (di Mario Forte*)

Si era verso la fine del "43", l'esercito italiano era allo sbando. Avevo allora solo nove anni, ma già una certa esperienza di aerei da bombardamento, di contraerea di divise e gradi militari, di fame e di tutti quei disagi che la guerra comporta e che la popolazione incolpevole subisce. La mia famiglia, dalla immediata periferia, si era dowta trasferire in paese perchè i tedeschi avevano requisito la no-stra casa con tutto quanto conteneva: mobili e vettovaglie, galline e una ca-pretta cui ero affezionato. Eravamo andati a stare presso i nonni paterni unitamente ad un fratello e due sorelle di mio pa-dre, tutti sposati con ri-spettivi figli piccoli. Il paese e dintorni era tutto un brulicare di soldati tedeschi. Il mio paese - Tremen-suoli - aveva un aspetto tetro, perchè era come woto, in realtà la gente se ne stava rintanata e i maschi adulti si nascondevano persino nei sottotetti in quanto i tedeschi avevano bisogno di braccia per qualsiasi lavoro, compreso quello di scavare trincee e gli uomini non volevano essere presi perchè avevano paura di non far più ritorno a casa la sera. Però siccome non avevamo quasi più nulla da mangiare, mio padre, quella volta, non volle nascondersi e così quando i tedeschi entrarono, aprendo la porta con un calcio, lo videro e, afferrandolo e strattonandolo gli gridarono: "Arbait!". Alla sera però, mio padre ritornò con due gavette di patate bollite con pezzi di carne e così tutti mangiammo. Io volli sapere se il giorno dopo sarebbe andato ancora con i tedeschi. Mio padre rispose di si. Addormentandomi, sognai patate bollite con pezzi di carne. Da parecchi giorni erano incominciati i borbandamenti alleati sul nostro territorio: molte squadriglie di B22, però, andavano a rovesciare il loro carico micidiale a Cassino dove era attestato il grosso dell'esercito tedesco. All'inizio, quando borbandavano di notte e dagli aeroplani scendevano mlliadi di razzi, mi incuriosivo a quella cascata di stelle filanti che illuminava tutto a giorno, poi, però, capii che quelle luci servivano per meglio colpire gli obiettivi, allora ebbi paura una paura fottuta per tutto quello che riguardava la guerra: capivo indistintemente che mi po-teva capitare di morire bambino e, questo pensiero, mi straziava nell'intimo. Tremensuoli era allora come quasi ancora oggi è, un insieme di abitazioni appiccicate le une alle altre in maniera ir-regolare. La linea che di-segna il profilo dei tetti contro il cielo è come il grafico di un e-lettrocardiogramma di un cuore ma-lato, e poi sporgenze, rientranze e terrazzini e balconi incastrati tra mu-ri di pietra senza intonaco e davanzali in mattoni affollati di gerani e di basilico. Una di queste abitazioni ap-parteneva ai miei nonni paterni: essa è ancora lì, non più abitata da nessuno di noi da quel lontano "43". Le sue mura sono annerite dal tempo e dalla pioggia. Alla casa vi si ac-cedeva da una gradinata esterna che partiva direttamente da "Vico Gelso". Da questo vicolo si ha anche accesso ad una specie di tunnel, col cielo a volta, che attraversa le abitazioni e ne costituisce il supporto; poi ha sbocco all'esterno, in campagna aperta. Dalle pareti del tunnel si può accedere a locali adibiti a stalle o a legnaie, ma in quel periodo costituivano rifugio antiaereo per diverse famiglie del paese. "Sepporte" è il nome di questo sottopassaggio: forse la storpiatura di "Supporto". Il giorno prima un aereo alleato aveva sorvolato il paese lanciando volantini che presero a scendere di-sordinatamente, a svolazzare come ali di grosse farfalle, riflettendo lampi di luce del debole sole invernale. Per noi ragazzi fu un momento di allegria quel rincorrerli prima che cadessero definitivamente al suolo: ne raccogliemmo a manciate, contendendoceli. Infine ogniuno tornò a casa portandone in tasca qualcuno per farlo leggere ai grandi. I grandi già sapevano: i volantini avvertivano che il giorno dopo il paese sarebbe stato bombardato e che tutti gli abitanti dovevano abbandonare le case e allontanarsi il più possibile nelle campagne. Noi, insieme ad altre famiglie, non ci preoccupammo più di tanto: pensammo che le "sepporte" costituivano un ricovero si-curo a pro-va di bomba. Al suono dell'allarme, io e mia sorella ci precipitammo, come sempre, sotto le "sepporte" e, da lì, entrammo nella grande stalla - legnaia. Vi trovammo già rifugiate diverse persone; molti erano parenti miei altre conoscenti. La loro presenza mi faceva sentire, fuori da ogni logica, quasi al sicuro. Mi sedetti su una fascina di legna: vicino, due innamorati si tenevano le mani e si facevano qualche ca-rezza, più in là, una donna teneva stretto un bimbetto a cui offriva, sorridendo, il seno. L'atmosfera era da presepe, ma il rombo degli aerei sopra di noi non lasciava presagire bene. Infatti, di lì a poco incominciarono ad udirsi sibili e fragori. Finchè uno di quei sibili si ingigantì fino a divenire assordante e, in un istante, tutto rovinò sopra di noi e le pareti della legnaia divennero una trappola per tutti. Aveva-no sganciato una bomba al fosforo che sprigionò fiamme e fumo mortali avvolgendo persone e cose. Quella mattina, là sotto, morirono una quindicina di persone, bruciate o soffocate dal fumo. Non si vedeva più nulla intorno: sentivo solo grida e lamenti e volevo gridare anch'io, ma il fumo che mi entrava dentro era come un bolo di spilli aguzzi che laceravano dolorosamente. No, non dovevo gridare, dovevo respirare col naso. Pensai che sarei morto, forse ero ferito. Con le mani mi esplorai tutto il corpo e mi convinsi di no. Presi a muovermi, mi sentii preso alla gamba da qualche mano in cerca d'appiglio e mi divincolai. Non potevo pensare a nessuno: ero attanagliato dalla paura e sentivo il calore forte delle fiamme che crepitavano. Riuscii a toccare una parete della legnaia e intuii che dovevo muovermi perimetralmente per poter individuare un varco. Al di là di una breccia nel muro intravidi un chiarore di luce naturale, ma la breccia era sbarrata da lingue di fuoco che si elevavano, contorcendosi. Arretrai di qualche passo, presi la rincorsa e mi trovai fuori da quell'inferno. E presi a guardarmi intorno: come un cineoperatore ruota la sua cinepresa, io roteavo la mia testa: finalmente rivedevo la terra, il cielo, gli alberi... Forse quell'orrore l'avevo solo sognato. Purtroppo la realtà era ancora lì, terribilmente rappresentata dal giovane Antonio Autore: se ne stava, seminudo, appoggiato al tronco dell'ulivo secolare, con addosso null'altro che la camicia sbrindellata e bruciacchiata. Vistose ustioni gli segnavano il viso e il resto del corpo. Le sue labbra si muovevano come a voler gridare la sua sofferenza, come a chiedere aiuto, ma usciva, dalla sua bocca, solo un gorgoglio indistinto, mentre ad ogni tentativo di articolare parola un fiotto di sangue gli usciva dalla gola inondandogli il petto: alla base del collo aveva una ferita grossa come una noce. Non volevo più vedere, non volevo più pensare, volevo solo correre, correre per quei viottoli lungo gli argini dei fossati di scolo, come quando li percorrevo inseguendo un cane o un gatto. E così, correndo all'impazzata, subito dopo un dos-so, feci impatto contro qualcosa o qualcuno; due braccia forti mi afferrarono: "Mario, Mario... sono io... calmati!" gridò mio padre, e mi abbracciò. Mia madre, mia sorella e mio fratello erano con lui: la famiglia era tutta lì ed eravamo salvi.

*già Consigliere Comunale del Comune di Minturno

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